L’età pensionabile, tra agevolazioni varie, si attesa sui 64,2 anni, invece che sui 67 stabiliti e questo dato insieme al trattamento che dovrebbe essere calcolato in base all’ultima retribuzione, secondo l’Inps, potrebbe comportare uno squilibrio.
È tutto scritto nero su bianco nel rapporto annuale dell’Istituto nazionale di previdenza sociale presentato ieri, 24 settembre. Un segnale chiaro che vuole arrivare al governo, impegnato proprio in questi giorni, nella realizzazione di una manovra che interessa anche la previdenza.
La preoccupazione è tanta soprattutto per il possibile peggioramento del rapporto tra pensionati e contribuenti, che potrebbero comportare squilibri nel sistema previdenziale, soprattutto in Paesi come l’Italia che al settore destina una somma considerevole.
La spesa previdenziale italiana, nell’ultimo anno in cui è possibile effettuare una comparazione con gli altri paesi europei, il 2021, si è attestata sul 16,3 per cento del prodotto interno lordo, dietro solo alla Grecia, mentre la media europea è stata del 12,9 per cento. Tutto questo quando si è calcolato che tra il 2019 e il 2021 i prepensionamenti sono stati circa 500mila l’anno, per diventare 400mila l’anno seguente e 300mila nel 2023.
Il lasso temporale nel quale si è registrato il maggior numero di pensionamenti anticipati è dipeso principalmente da ‘Quota 100’ e dalla possibilità di un’uscita anticipata a condizione di aver versato 42 anni e 10 mesi di contributi, a prescindere dall’età anagrafica del lavoratore. Se la valutazione viene fatta solo in relazione all’Ape sociale, allora bisogna evidenziare che nel periodo esaminato l’età di pensionamento è passata da 62,1 a 64,6 anni, per le pensioni anticipate si è passati da 59,5 a 61,5 anni e per la pensione di vecchiaia dai 64,1 ai 67,5.
In questo quadro, anche a causa della perequazione, sono anche aumentati gli importi pensionistici che si attestano di poco oltre i 1.300 euro, seppure a percepire somme più elevate sono i pensionati del Nord e nel Lazio. Un prospetto nel quale è apparso, inoltre, evidente che l’importo medio mensile per gli uomini è nettamente superiore a quello delle donne.
L’Inps, però, nel suo rapporto specifica un altro aspetto fondamentale e cioè che a fronte di un aumento lordo dei salari del 6,8 per cento corrisponde un aumento dei prezzi che va dal 15 al 17 per cento. L’inflazione sembra rendere vano ogni sforzo. Ma la decontribuzione, attuata dall’ottobre scorso per l’84 per cento delle donne e il 90 per cento dei lavoratori sotto i 35 anni ha attutito l’impatto dell’inflazione, per quanto sembra proprio che ci sia ancora molta strada da fare.
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